A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare — КиберПедия 

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A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare

2023-02-03 33
A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare 0.00 из 5.00 0 оценок
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E questa sorpresa quale fu?

Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse…

Si accorse con suo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.

Voi sapete che il burattino aveva gli orecchi piccini. Immaginatevi dunque come restò, quando dovè toccar con mano che i suoi orecchi, durante la notte, erano allungati.

Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano e vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.

Cominciò a piangere, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima.

Al rumore di quelle grida, entrò nella stanza una bella Marmotta, che abitava al piano di sopra: la quale gli domandò:

– Che cos’hai, mio caro casigliano?

– Sono malato, Marmotta mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?

– Un pochino.

– Senti dunque se per caso avessi la febbre.

La Marmotta alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso a Pinocchio, gli disse sospirando:

– Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!..

– Cioè?

– Tu hai una gran brutta febbre!

– E che febbre sarebbe?

– È la febbre del somaro.

– Non la capisco questa febbre! – rispose il burattino.

– Allora te la spiegherò io – soggiunse la Marmotta. – Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più né un burattino, né un ragazzo…

– E che cosa sarò?

– Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.

– Oh! povero me! – gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente.

– Caro mio, – replicò la Marmotta per consolarlo – che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.

– Ma davvero è proprio così? – domandò il burattino.

– Pur troppo è così! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!

– Ma la colpa non è mia: la colpa è tutta di Lucignolo!..

– E chi è questo Lucignolo?

– Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore… ma Lucignolo mi disse: – “Perché vuoi tu annoiarti a studiare? perché vuoi andare alla scuola?… Vieni con me, nel Paese dei balocchi: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri”.

– E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?

– Perché?… perché io sono un burattino senza giudizio… e senza cuore. Oh! Se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonata quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!.. e a quest’ora non sarei più un burattino… ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n’è tanti! Oh!.. ma se incontro Lucignolo, guai a lui!

E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino. Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa.

Poi uscì: e si dette a cercare Lucignolo. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.

Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta, bussò.

– Chi è? – domandò Lucignolo di dentro.

– Sono io! – rispose il burattino.

– Aspetta un poco, e ti aprirò.

Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.

Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:

– Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?…

E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:

– Come stai, mio caro Lucignolo?

– Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.

– Lo dici proprio sul serio?

– E perché dovrei dirti una bugia?

– Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti copre tutti gli orecchi?

– Me l’ha ordinato il medico, perché mi son fatto male a un ginocchio. E tu, caro Pinocchio, perché porti codesto berretto di cotone?

– Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono sbucciato un piede.

– Oh! povero Pinocchio!..

– Oh! povero Lucignolo!..

A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.

Finalmente il burattino, con una vocina melliflua, disse al suo compagno:

– Mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?

– Mai!.. E tu?

– Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio che mi fa spasimare.

– Ho lo stesso male anch’io.

– Anche tu?… E qual è l’orecchio che ti duole?

– Tutti e due. E tu?

– Tutti e due. Che sia la medesima malattia?

– Ho paura di sì.

– Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?

– Volentieri! Con tutto il cuore.

– Mi fai vedere i tuoi orecchi?

– Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.

– No: il primo devi essere tu.

– No, carino! Prima tu, e dopo io!

– Ebbene, – disse allora il burattino – facciamo un patto da buoni amici.

– Sentiamo il patto.

– Leviamoci tutti e due il berretto nello stesso tempo: accetti?

– Accetto.

– Dunque attenti!

E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:

– Uno! Due! Tre!

Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.

E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutti e due dalla medesima disgrazia cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.

E risero, risero, risero, poi Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando di colore, disse all’amico:

– Aiuto, aiuto, Pinocchio!

– Che cos’hai?

– Ohimè! non mi riesce più di star ritto sulle gambe.

– Non mi riesce più neanche a me – gridò Pinocchio, piangendo.

E mentre dicevano così, si piegarono tutti e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si coprirono di un pelame.

Ma il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.

 

 

Non l’avessero mai fatto! Invece di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini, facevano tutti e due in coro: j-a, j-a, j-a.

In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:

– Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!

33. Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere, e lo compra il Direttore di una compagnia di pagliacci, per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi: ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua pelle un tamburo

Vedendo che la porta non si apriva, l’Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:

– Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui.

A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi[131], colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.

Da principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli per bene. E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.

E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.

Lucignolo fu comprato da un contadino, e Pinocchio fu venduto al Direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia.

E ora avete capito qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo andava con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel “Paese dei balocchi” perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e su i mercati. E così in pochi anni era diventato milionario.

Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro a una vita durissima.

Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata, la risputò.

Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.

– Ah! non ti piace neppure il fieno? – gridò il padrone. – Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci, penserò io a levarteli!..

E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.

Pinocchio, dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando disse:

– J-a, j-a, la paglia non la posso digerire!..

– Allora mangia il fieno! – replicò il padrone, che intendeva benissimo il dialetto asinino.

– J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!..

– Pretenderesti, dunque, che un somaro, lo dovessi mantenere a petti di pollo? – soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più, e affibbiandogli una seconda frustata.

A quella seconda frustata Pinocchio si chetò subito e non disse altro.

Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano molte ore che non aveva mangiato, cominciò a sbadigliare dal grande appetito.

Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.

– Questo fieno non è cattivo – poi disse dentro di sé – ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!.. A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame! Pazienza!..

La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno; ma non lo trovò, perché l’aveva mangiato tutto nella notte.

Allora prese una boccata di paglia tritata; e in quel mentre che la stava masticando, si dovè persuadere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai maccheroni alla napoletana.

– Pazienza! – ripetè. – Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi che non hanno voglia di studiare. Pazienza!.. pazienza!..

– Pazienza un corno! – urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. – Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Vieni con me nel Circo e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca.

Il povero Pinocchio dovè imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo.

Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone potè annunciare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario coloredicevano così:

GRANDE SPETTACOLO DI GALA

Per questa sera

Sarà presentato per la prima volta Il famoso

CIUCHINO PINOCCHIO

Detto

LA STELLA DELLA DANZA

Il teatro sarà illuminato a giorno

Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato[132].

Non si trovava più né una poltrona, né un palco.

Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio.

Finita la prima parte dello spettacolo, il Direttore vestito in giubba nera, calzoni bianchi e stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò al pubblico e recitò con molta solennità il seguente spropositato discorso: “Rispettabile pubblico, cavalieri e dame! L’umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonché il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino. E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!”

Questo discorso fu accolto da molti applausi; ma gli applausi raddoppiarono alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto paonazzo e celeste.

E qui il Direttore fece una profondissima riverenza: quindi volgendosi a Pinocchio, gli disse:

– Animo, Pinocchio! Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi!

Pinocchio, ubbidiente, piegò subito i due ginocchi davanti, e rimase inginocchiato fino a tanto che il Direttore, schioccando la frusta, non gli gridò:

– Al passo!

Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di passo.

Dopo un poco il Direttore gridò:

– Al trotto! – e Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in trotto.

– Al galoppo! – e Pinocchio staccò il galoppo.

– Alla carriera! – e Pinocchio si dette a correre di gran carriera. Ma in quella che correva come un barbero, il Direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola.

A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero.

Rizzatosi da terra in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli, gli venne fatto naturalmente di alzare la testa e di guardare in su… e guardando, vide in un palco una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro dalla quale pendeva un medaglione. Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino.

– Quel ritratto è il mio!.. quella signora è la Fata! – disse dentro di sé Pinocchio: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare:

– Oh Fatina mia! oh Fatina mia!..

Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio così sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori.

Allora il Direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza di mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli dette col manico della frusta una bacchettata sul naso.

Il povero ciuchino, tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse così di rasciugarsi il dolore che aveva sentito.

Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!..

Si sentì come morire: cominciò a piangere. Nessuno però se ne accorse, e, meno degli altri, il Direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:

– Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi.

Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte.

Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena[133] potè ritornare alla scuderia.

– Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! – gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.

Ma il ciuchino per quella sera non si fece più rivedere.

La mattina dopo il veterinario, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.

Allora il Direttore disse al suo garzone di stalla:

– Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane. Portalo dunque in piazza e rivendilo.

Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:

– Quanto vuoi di codesto ciuchino zoppo?

– Venti lire.

– Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo.

Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli dette improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua.

Pinocchio andò subito a fondo: e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sopra uno scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi scorticarlo e levargli la pelle.

34. Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna ad essere un burattino come prima: ma mentre nuota per salvarsi, è ingoiato dal terribile Pescecane

Dopo cinquanta minuti che il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo:

– A quest’ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo.

E cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira, tira, alla fine vide apparire a fior d’acqua… indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo.

Vedendo quel burattino di legno, il pover’uomo credè di sognare e rimase intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa.

Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse piangendo:

– E il ciuchino che ho gettato in mare dov’è?…

– Quel ciuchino son io! – rispose il burattino, ridendo.

– Tu?

– Io.

– Ah! mariuolo! Pretenderesti forse di burlarti di me?

– Burlarmi di voi? Tutt’altro, caro padrone: io vi parlo sul serio.

– Ma come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora stando nell’acqua, sei diventato un burattino di legno?…

– Sarà effetto dell’acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.

– Bada burattino, bada!.. Non credere di divertirti alle mie spalle! Guai a te, se mi scappa la pazienza!

– Ebbene, padrone; volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò.

Quel compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell’aria, prese a dirgli così:

– Sappiate dunque che io ero un burattino di legno, come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa… e un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro!.. Che vergogna fu quella per me!.. Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e un gran saltatore di cerchi: ma una sera, durante lo spettacolo, feci in teatro una brutta cascata e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il Direttore, non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi avete comprato!..

– Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri venti soldi?

– E perché mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un tamburo!..

– Pur troppo! E ora dove troverò un’altra pelle?…

– Non vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti in questo mondo!

– Dimmi, monello; e la tua storia finisce qui?

– No – rispose il burattino – ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi, ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora moltissimo e io ve ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza la Fata…

– E chi è questa Fata?

– È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi, e non li perdono mai d’occhio, e li assistono in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi meriterebbero di esser abbandonati e lasciati in balia a sé stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito intorno a me un branco infinito di pesci, i quali credendomi davvero un ciuchino morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero più ghiotti anche dei ragazzi!.. Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena… e, fra gli altri, vi fu un pesciolino così garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda.

– Da oggi in poi – disse il compratore – faccio giuro di non assaggiar più carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una coda di ciuco!

– Io la penso come voi – replicò il burattino, ridendo. – Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, com’è naturale, all’osso… o per dir meglio, arrivarono al legno. Ma dopo dati i primi morsi, quei pesci si accorsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti, e se ne andarono chi in qua, chi in là. Ed eccovi raccontato come voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo, invece d’un ciuchino morto.

– Io mi rido della tua storia – gridò il compratore imbestialito. – Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò al mercato, e ti rivenderò a peso di legno per accendere il fuoco nel caminetto.

– Rivendetemi pure: io sono contento – disse Pinocchio.

Ma nel dir così, fece un bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore:

– Addio, padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me.

E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava più forte:

– Addio, padrone; se avete bisogno di un po’ di legno per accendere il caminetto, ricordatevi di me.

Si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più.

Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco, e su in cima allo scoglio, una bella capretta che belava e gli faceva segno di avvicinarsi.

La cosa più singolare era questa: che la lana della capretta era tutta turchina, ma d’un turchino così sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.

Lascio pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere più forte! Raddoppiando di forza e di energia si dette a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quand’ecco uscir fuori dell’acqua e venirgli incontro un’orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata, e tre filari di zanne.

Quel mostro marino era né più né meno quel Pescecane ricordato più volte in questa storia.

Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio, alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.

– Affrettati, Pinocchio! – gridava belando la bella capretta.

E Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi.

– Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina!..

E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa.

– Bada, Pinocchio!.. il mostro ti raggiunge!.. Eccolo!.. Eccolo!.. Affrettati per carità, o sei perduto!..

E Pinocchio a nuotare più lesto che mai, e via, e via, e via, come anderebbe una palla di fucile. E già si accostava allo scoglio, e già la capretta gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscir fuori dell’acqua… Ma!..

Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto. Il mostro si bevve il povero burattino, e lo inghiottì con tanta violenza, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pescecane, battè un colpo da restarne sbalordito per un quarto d’ora.

Quando ritornò in sé, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro.

Stette in ascolto e non sentì nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pescecane soffriva moltissimo d’asma.

Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un po’ di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino, allora cominciò a piangere; e piangendo diceva:

– Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?

– Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?… – disse in quel buio una voce fessa di chitarra scordata.

– Chi è che parla così? – domandò Pinocchio.

– Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pescecane insieme con te. E tu che pesce sei?

– Io sono un burattino.

– E allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal mostro?

– Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?…

– Rassegnarsi e aspettare che il Pescecane ci abbia digeriti tutti e due!..

– Ma io non voglio esser digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.

– Neppure io vorrei esser digerito! – soggiunse il Tonno – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!..

– Scioccherie! – gridò Pinocchio.

– La mia è un’opinione – replicò il Tonno – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!

– Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…

– Fuggi, se ti riesce!..

– È molto grosso questo Pescecane che ci ha inghiottiti? – domandò il burattino.

– Figurati che il suo corpo è più lungo di un chilometro senza contare la coda.

Nel tempo che facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano una specie di chiarore.

– Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? – disse Pinocchio.

– Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento di esser digerito!..

– Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace d’insegnarmi la strada per fuggire?

– Io te l’auguro di cuore, caro burattino.

– Addio, Tonno.

– Addio, burattino: e buona fortuna.

– Dove ci rivedremo?…

– Chi lo sa?… È meglio non pensarci neppure!

35. Pinocchio ritrova in corpo al Pescecane… chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e camminando a tastoni dentro il corpo del Pescecane, si avviò un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano.

E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa.

E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… trovò una piccola tavola, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.

A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza grande e inaspettata. Voleva ridere, voleva piangere; e invece mugolava e balbettava delle parole sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia, e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:

– Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!

– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto – Dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?

– Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete già perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!.. e pensare che io, invece… Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi sono andate a traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca, mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’Osteria del Gambero Rosso, dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia Grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: – “Se non è morto, è segno che è sempre vivo” – e allora mi scappò detta una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’Osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il Giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto, e così ritornai alla casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: “Ho visto il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare”, e io gli dissi: “Oh! se avessi l’ali anch’io”, e lui mi disse: “Vuoi venire dal tuo babbo?”, e io gli dissi: “Magari! ma chi mi ci porta?”, e lui mi disse: “Ti ci porto io”, e io gli dissi: “Come?”, e lui mi disse: “Montami sulla groppa”, e così abbiamo volato tutta la notte, poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: “C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare”, e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il cuore, e vi feci segno di tornare alla spiaggia…

– Ti riconobbi anch’io – disse Geppetto – e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone rovesciò la barchetta. Allora un orribile Pescecane che era lì vicino, appena che m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua e m’inghiottì.

– E quant’è che siete chiuso qui dentro? – domandò Pinocchio.

– Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!

– E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela?

– Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento calò a fondo e il solito Pescecane che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo avere inghiottito me, inghiottì anche il bastimento…

– Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?… – domandò Pinocchio.

– Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro[134], perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico non solo di carne conservata in cassette di stagno, ma di biscotto, di bottiglie di vino, d’uva secca, di caffè, di zucchero, di candele e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta…

– E dopo?…

– E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.

– Allora, babbino mio – disse Pinocchio – non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire…

– A fuggire?… e come?

– Scappando dalla bocca del Pesccane e gettandosi a nuoto in mare.

– Tu parli bene: ma io non so nuotare.

– E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.

– Illusioni, ragazzo mio! – replicò Geppetto. – Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?

– Provatevi e vedrete!

E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo:

– Venite dietro a me, e non abbiate paura.

E così camminarono, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pescecane. Ma giunti al punto dove cominciava la spaziosa gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.

Ora bisogna sapere che il Pescecane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, potè vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.

– Questo è il vero momento di scappare – bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. – Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo. Venite dunque, babbino, dietro a me, e fra poco saremo salvi.

Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca, cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua. E già stavano per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando il Pescecane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro.

Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliolo rimasero al buio.

– E ora?… – domandò Pinocchio facendosi serio.

– Ora, ragazzo mio, siamo perduti.

– Perché perduti? Datemi la mano, babbino!

– Dove mi conduci?

– Dobbiamo ritentare la fuga.

Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti.

Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:

– Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io.

Appena Geppetto si fu accomodato sulle spalle del figliolo, il bravo Pinocchio si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pescecane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.


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