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2023-02-03 | 29 |
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Il burattinaio Mangiafoco (ché questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, specie con quella sua barba nera; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, urlando “Non voglio morire, non voglio morire!”, principiò subito a commuoversi e a impietosirsi, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
– Buone nuove, fratello! Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo.
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta[43] di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.
Dopo avere starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:
– Finiscila di piangere! Etcì! Etcì! – e fece altri due starnuti.
– Felicità![44] – disse Pinocchio.
– Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? – gli domandò Mangiafoco.
– Il babbo, sì: la mamma non l’ho mai conosciuta.
– Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra questi carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!.. Etcì, etcì, etcì – e fece altri tre starnuti.
– Felicità! – disse Pinocchio.
– Grazie! Del resto[45] bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma ormai mi sono impietosito. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia Compagnia. Olà, giandarmi!
A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.
Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:
– Pigliatemi quell’Arlecchino, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene!
Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi[46] per terra.
Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo, cominciò a dire con voce supplichevole:
– Pietà, signor Mangiafoco!..
– Qui non ci son signori! – replicò duramente il burattinaio.
– Pietà, signor Cavaliere!..
– Qui non ci sono cavalieri!
– Pietà, signor Commendatore!..
– Qui non ci sono commendatori!
– Pietà, Eccellenza!..
A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio diventato tutt’a un tratto più umano, disse a Pinocchio:
– Ebbene, che cosa vuoi da me?
– Vi domando grazia per il povero Arlecchino!..
– Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene.
– In questo caso – gridò Pinocchio – in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino debba morire per me!
Queste parole fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi piangevano come due agnellini di latte.
Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:
– Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio.
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.
– Dunque la grazia è fatta? – domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce[47] che si sentiva appena.
– La grazia è fatta! – rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando – Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra volta, guai a chi toccherà!..
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e cominciarono a saltare e a ballare.
12. Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio perché le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte[48] Pinocchio e gli domandò:
– Come si chiama tuo padre?
– Geppetto.
– E che mestiere fa?
– Il povero.
– Guadagna molto?
– Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dovè vendere l’unica casacca che aveva.
– Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia.
Pinocchio ringraziò mille volte il burattinaio: abbracciò, a uno a uno[49], tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di sé[50] dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene a casa sua.
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi che se ne andavano là là[51], aiutandosi fra di loro. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
– Buon giorno, Pinocchio – gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
– Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino.
– Conosco bene il tuo babbo.
– Dove l’hai veduto?
– L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
– E che cosa faceva?
– Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.
– Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!..
– Perché?
– Perché io sono diventato un gran signore.
– Un gran signore tu? – disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere[52], si pettinava i baffi colle zampe davanti.
– C’è poco da ridere – gridò Pinocchio impermalito. – Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca[53], ma queste qui sono cinque bellissime monete d’oro.
E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.
Al simpatico suono di quelle monete, la Volpe per un moto involontario allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, che Pinocchio non si accorse di nulla.
– E ora – gli domandò la Volpe – che cosa vuoi farne di codeste monete?
– Prima di tutto – rispose il burattino – voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.
– Per te?
– Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.
– Guarda me! – disse la Volpe. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.
– Guarda me! – disse il Gatto. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.
In quel mentre[54] un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il suo solito verso e disse:
– Pinocchio, non dar retta[55] ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!
Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone.
Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi, e ricominciò a fare il cieco come prima.
– Povero Merlo! – disse Pinocchio al Gatto – perché l’hai trattato così male?
– Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.
Erano giunti più che a mezza strada quando la Volpe, fermandosi, disse al burattino:
– Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?
– Cioè?
– Vuoi tu, di cinque zecchini, farne cento, mille, duemila?
– Magari! e la maniera?
– La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.
– E dove mi volete condurre?
– Nel paese dei Barbagianni.
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
– No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo cattivo. E io l’ho provato a mie spese, perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni[56] soltanto a pensarci!
– Dunque – disse la Volpe – vuoi proprio andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto peggio per te.
– Tanto peggio per te! – ripetè il Gatto.
– Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna[57].
– Alla fortuna! – ripetè il Gatto.
– I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.
– Duemila! – ripetè il Gatto.
– Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.
– Te lo spiego subito – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto.
Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia, e la mattina dopo, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.
– Sicché dunque – disse Pinocchio – se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?
– È un conto facilissimo – rispose la Volpe – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la mattina dopo ti trovi in tasca duemilacinquecento zecchini.
– Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.
– Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi!
– Te ne liberi! – ripetè il Gatto.
– Noi – riprese la Volpe – non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.
– Gli altri! – ripetè il Gatto.
– Che brave persone! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario, disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo subito, io vengo con voi.
13. L’osteria del “Gambero Rosso”
Cammina, cammina, alla fine sul far della sera[58] arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.
– Fermiamoci un po’ qui – disse la Volpe – tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli.
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi indisposto di stomaco, non potè mangiare altro che[59] trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe mangiato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dovè contentarsi di una semplice lepre dolce e un contorno di pollastre e di galletti di primo canto[60]. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli.
Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:
– Datemi due buone camere. Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino[61]. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.
– Sissignori – rispose l’oste, e strizzò l’occhio[62] alla Volpe e al Gatto.
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin, zin. Ma quando Pinocchio allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.
Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.
– E i miei compagni sono pronti? – gli domandò il burattino.
– Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.
– Perché tanta fretta?
– Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.
– E la cena l’hanno pagata?
– Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate, perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.
– Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! – disse Pinocchio. Poi domandò:
– E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
– Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno[63].
Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio che non ci si vedeva da qui a lì[64]. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni uccelli notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale gridava: – Chi va là? – e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: – Chi va là? chi va là? chi va là?
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto.
– Chi sei? – gli domandò Pinocchio.
– Sono l’ombra del Grillo-parlante – rispose l’animaletto con una vocina fioca fioca.
– Che vuoi da me? – disse il burattino.
– Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini al tuo povero babbo, che piange e si dispera per non averti più veduto.
– Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.
– Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me[65], ritorna indietro.
– E io invece voglio andare avanti.
– L’ora è tarda!..
– Voglio andare avanti.
– La nottata è scura…
– Voglio andare avanti.
– La strada è pericolosa…
– Voglio andare avanti.
– Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di capriccio, prima o poi se ne pentirono.
– Le solite storie. Buona notte, Grillo.
– Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini.
Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto e la strada rimase più buia di prima.
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